la relazione tra corpo e mente

  1. Il movimento del bambino in età scolare

Nel periodo di crescita che interessa la scuola elementare (dai cinque agli undici anni) il bambino ha forti motivazioni allo sport ed all’attività motoria in genere. Quando si appassiona ad un’attività motoria, ovviamente sotto forma di gioco e di divertimento, manifesta un grosso impegno ed evidenzia la presenza di una motivazione concreta. Probabilmente i due fattori primari che agiscono da molla sono le dimensioni del gioco e dell’agonismo, oltre ad altri fattori secondari.

Come tutti sappiamo, molti psicologi, tra i quali  Piaget, riconoscono al gioco diversi aspetti positivi in quanto il gioco è considerato anzitutto una sorta di pre-esercizio, attraverso il quale le pratiche inerenti il gioco infantile costituiscono un addestramento spontaneo al futuro e quindi alle attività contemplate dalla vita adulta ed una sorta di  post-esercizio in quanto l’attività ludica orienta verso uno sviluppo completo ed un graduale ampliamento delle linee generali di condotta assimilate precedentemente.

Piaget ha integrato queste due prospettive relative al valore di pre-esercizio e di post-esercizio dell’attività ludica, aggiungendo altre rilevanze concrete del gioco infantile: l’ impiego dell’energia in eccedenza per agevolare l’elaborazione dei dati disponibili nell’esperienza del mondo esterno; il  controllo dei momenti di frustrazione presenti nella vita del bambino, che deve fare continuamente i conti con una realtà talvolta avversa; anche per queste motivazioni i più giovani tendono a creare una dimensione fittizia dove trasferire e trasfigurare eventi concreti, di carattere negativo, che nel gioco possono invece essere previsti e gestiti meglio che nella dimensione reale.

L’attività ludica riveste quindi un ruolo molto importante per l’uomo, lo coinvolge in diverse dinamiche come la socializzazione, facilitata dall’esercizio di giochi a carattere comunitario, mediante l’assimilazione di un corpus di principi-guida che favoriscono il rispetto delle regole del vivere associato da parte della persona in età evolutiva.

Bisogna riconoscere al gioco soprattutto la sua funzione centrale nello sviluppo dell’intelligenza, attraverso i diversi momenti che scandiscono la crescita individuale nella sua interazione con il mondo e nel mondo, momenti  che sono come tante tappe che consentiranno al bambino di costruirsi una personalità sana ed elaborare individualmente una serie di conoscenze e nozioni utili alla formazione della sfera cognitiva.

L’agonismo, che è anche questo tipico delle attività sportive, costituisce un fattore compensativo dell’istintività, dell’aggressività, dell’irrequietezza, ha un potere equilibratore e liberatorio, se viene vissuto in un contesto organizzato, gestito da un istruttore adeguatamente preparato e funziona da decongestionante psichico, favorendo la crescita psichica ed emotiva dell’alunno. L’attività motoria, magari non risolve, ma contribuisce a lavorare sui bisogni e sulle ansie individuali dei bambini, favorendo anche il loro inserimento “sociale”.

  1. Lo sviluppo psicomotorio

Sappiamo poi che i bambini attraversano, lentamente e durante tutto l’arco dell’età scolare, un processo di evoluzione neurofisiologica, definito “dominanza”, processo che fa sì che, per la maggior parte dei bambini, il lato sinistro del corpo abbia funzioni di sostegno, appoggio e difesa, mentre il destro ha funzioni di attacco, slancio ed offesa. Tranne nel caso dei bambini francamente mancini, dove avviene esattamente  il contrario.  Questo processo ha origine dalla mano e si evolve poi in tutto il lato del corpo, fino ad arrivare alla cosiddetta “lateralizzazione”, cioè la divisione del lato del controllo nervoso delle due metà del corpo. Senza la lateralizzazione non si è in grado di compiere efficacemente dei gesti sportivi. Il bambino non nasce lateralizzato, ma lo diventa sulla base della maturazione delle strutture nervose e finché non la raggiunge il suo schema corporeo e l’efficacia dei suoi movimenti restano imprecisi. Tutti gli insegnanti sanno riconoscere l’assenza di lateralizzazione dai suoi sintomi: la difficoltà di riconoscere il sopra e il sotto, la destra dalla sinistra, in generale la disorganizzazione psicomotoria. A questi elementi, fondamentali per un’acquisizione corretta degli apprendimenti relativi alla struttura della parola scritta,  va aggiunta anche l’osservazione dello sviluppo dello schema corporeo, cioè l’immagine di sé che il bambino ha. Si tratta delle immagini mentali, corrispondenti alle varie posizioni del corpo o di parti del corpo, sia nelle posizioni statiche, che in movimento. Per favorire una corretta lateralizzazione occorre però che il bambino sperimenti tutte le possibilità strumentali del proprio corpo: in piedi, sdraiato, seduto, a testa in giù, in tutti i tipi di movimento, in rotolamento, in caduta, e così via. Questo processo avviene per fasi: distinzione tra il sé e il non sé, riconoscimento della propria immagine allo specchio,ecc. Lateralizzazione, schema corporeo, organizzazione spazio-temporale, sono quindi i presupposti ed il risultato della maturazione del bambino. La lateralizzazione, come processo neuro-fisiologico, ha importanti implicazioni sugli altri due, che sono più tipicamente psicologici. Insegnanti, animatori, educatori sportivi sanno favorire questo aspetto dello sviluppo cognitivo. Occorre però che esistano i necessari presupposti neuro psicologici ed affettivi, che dipendono dal rispetto dei tempi e delle maturazioni evolutive che non possono essere anticipate, ma solo agevolate, preparate. Proporre ad un bambino un’attività, cioè un tipo di esperienza cognitiva per la quale non sia ancora maturo, può essere non solo improduttivo, ma addirittura controproducente. Il bambino, infatti, sceglie tempi e modi dei suoi interessi. Noi tutti conosciamo i disastri di un insegnamento affrettato dove il bambino impara pure a leggere e anche a scrivere entro i tempi canonici (alla fine della classe prima), ma se questo avviene in assenza di propedeutici “giochi” motori di lateralizzazione i disturbi dell’apprendimento si evidenzieranno più o meno intorno ai sette, otto anni, nella  classe terza, quando, oltre a far ricorso ad un apprendimento della lingua scritta avvenuto utilizzando il canale visivo (memoria per immagini), occorre una più raffinata conoscenza e competenza di tipo spaziale per riconoscere e collocare nel tempo e nello spazio parole, testi, eventi, luoghi fisici (che sono tipici dell’intelligenza spaziale)

La costruzione di una corretta Intelligenza spaziale, esperita attraverso la conquista di un’intelligenza corporeo/cinestetica, diventa quindi il presupposto essenziale per l’apprendimento delle discipline come:

  • La Matematica
  • La Storia
  • La Geografia
  • La musica

Sarebbe necessario trasformare questa esperienza in una  ricerca di laboratorio che si  articoli proprio intorno alla relazione corpo-mente, esplorando il tema nelle sue varie sfaccettature soprattutto dal punto di vista del corpo in movimento.

In una società come la nostra, altamente tecnologica, che ci induce sempre di più a non muoverci o a muoverci in spazi molto limitati forse stiamo perdendo proprio il rapporto con il corpo. Il movimento invece è essenziale per integrare gli schemi motori, per sviluppare una buona coordinazione, per favorire un apprendimento globale e senza stress. Un integrale sviluppo motorio ci fa stare bene con noi stessi, aumenta la nostra autostima e ci mette in condizioni di relazionarci con gli altri e con l’ambiente circostante in modo armonioso.

Ricordo la mia compagna esonerata da “ginnastica” alle magistrali e la domanda che si facevano su di lei i professori: “Come potrà fare la maestra?”….

  1. Intelligenze multiple

Il primo psicologo che ha parlato delle Intelligenze Multiple è stato Howard Gardner in “formae mentis” pubblicato nel 1983. Il punto di partenza della sua teoria è la convinzione che sia errato ritenere che ci sia qualcosa chiamata “intelligenza” che possa essere obiettivamente misurata e ricondotta ad un singolo numero, ovvero ad un punteggio “IQ”. Secondo Gardner, ogni persona è dotata di almeno otto intelligenze, ovvero, è intelligente in almeno otto modi diversi. (Gardner nei suoi studi era partito da sette intelligenze, ma in seguito ha dimostrato con certezza l’esistenza di un’ottava e ne ha anche ipotizzato una nona). Ciò significa che alcuni di noi possiedono livelli molto alti in tutte o quasi tutte le intelligenze, mentre altri hanno sviluppato in modo più evidente solo alcune di esse. Tuttavia è importante sapere che ognuno può sviluppare tutte le diverse intelligenze fino a raggiungere soddisfacenti livelli di competenze. Gardner sostiene pertanto che tutti possiamo sviluppare le nostre diverse intelligenze se siamo messi nelle condizioni appropriate di incoraggiamento, arricchimento e istruzione. Inoltre le intelligenze sono strettamente connesse tra di loro e interagiscono in modo molto complesso. Un esempio molto semplice e significativo lo possiamo trovare nella vita di tutti i giorni nell’atto di cucinare un piatto per pranzo. Questa semplice azione  mette in moto e in relazione più di una delle nostre intelligenze: anzitutto  leggere la ricetta (intelligenza verbale); poi calcolare gli ingredienti necessari (intelligenza matematica); tenere conto dei gusti personali (intelligenza intrapersonale) e di quelli altrui (intelligenza interpersonale). Se ognuno diventa consapevole delle proprie intelligenze più forti e di quelle più deboli, può usare le più forti per sviluppare o compensare quelle più deboli.

Non esiste quindi un’area del cervello  dedicata, ma zone cerebrali che si influenzano reciprocamente. Per questo preferiamo accogliere la teoria di Gardner che integra la teoria della mente modulare (Fodor),  a quella sviluppata dagli evoluzionisti. Gardner ci parla di intelligenze multiple, una teoria che ci aiuta a comprendere meglio come sia possibile, a dispetto di quanto afferma Piaget, che anche un soggetto che presenta evidenti limitazioni in una o più aree, sia in grado di sviluppare una serie di competenze complesse e molto evolute. Competenze che spesso però restano nascoste e ignorate da tutti, fino a quando quello stesso soggetto non viene messo in condizione di esprimerle. Nella scuola, tradizionalmente, si punta tutto sull’apprendimento della lingua italiana e della matematica, dimenticando un presupposto fondamentale, che l’apprendimento, e in particolare l’abilità di riuscire a far funzionare connessioni logiche, è costituita da una rete di sinapsi, da connessioni neurali complesse, facilitate proprio dal potenziamento e dall’attivazione di diverse  competenze. 

Gardner dimostra che ci sono almeno otto  forme di intelligenze: oltre a quella linguistica ed a  quella logica, che sono quelle più note e monitorate, c’è un’intelligenza  musicale, che appartiene a tutti coloro che sanno usare questo codice come linguaggio, esiste poi una vera e propria  intelligenza visivo/spaziale, che consiste nell’abilità di valutare gli ampi spazi come sanno fare un pilota o un navigatore, o gli spazi locali, come farebbero uno scultore, un architetto o un giocatore di scacchi; c’è anche l’intelligenza cinestetica/corporea, che è l’intelligenza del ballerino, dell’atleta, dell’artigiano, dell’attore; sono poi fondamentali due tipi di intelligenza personale, l’intelligenza interpersonale, che consiste nella comprensione delle altre persone: come esse lavorano, come motivarle, come andare d’accordo con loro e l’intelligenza intrapersonale, che consiste nella comprensione di se stessi, di chi si è, di cosa si cerca di raggiungere; esiste infine una vera e propria “intelligenza naturalistica“ che consiste nella capacità di riconoscere diversi oggetti nella natura: esseri viventi, piante, animali, e anche le rocce, o le nuvole o tipi diversi di tempo; ed ancora l’altra, una nona intelligenza, sulla quale la sua ricerca si sta ancora cimentando, che è quella:“esistenziale”, che mette in grado l’uomo di dare risposte ai grandi temi della vita.

In ogni persona questi percorsi della mente sono tutti presenti, più o meno attivi, sono canali aperti che consentono di accostarsi al reale e di costruire delle rappresentazioni, dei processi, dei veri e propri codici. Anche se uno o più percorsi sono interdetti, ne esistono altri che possono permettere lo strutturarsi delle conoscenze, la trasmissione e la conservazione delle conoscenze, la costruzione dei saperi.

Lo sviluppo di una specifica forma di intelligenza è, dunque, relativo alla capacità di un sistema cognitivo di elaborare la struttura del sistema simbolico di cui è l’espressione cognitiva.


Un aspetto interessante e particolarmente rilevante di queste intelligenze è che “ciascuna di esse è suscettibile di esprimersi in un sistema simbolico o notazionale” (Gardner, 1987).

Ad esempio, il sistema simbolico dell’intelligenza logico-matematica è diverso da quello musicale perché il suo sviluppo è vincolato dalle regole sintattiche dell’universo simbolico della matematica. Ma entrambi i sistemi sono codici e prevedono, comunque, la strutturazione di un vero e proprio sistema simbolico che non è mai separato, scisso dall’insieme dagli altri sistemi simbolici. Maggiori sono i flussi, i canali di connessione, maggiore sarà la complessità delle conoscenze.

Lo studio delle prime forme di simbolizzazione presso l’Harvard University nell’ambito del Progetto Zero, ha condotto Gardner a definire una pluralizzazione ed un’individualizzazione dei modi di conoscere degli uomini basata, appunto, su questa teoria delle “Intelligenze Multiple”.

Come osserva Gardner “la nostra specie ha conosciuto un’evoluzione che l’ha portata a pensare in lingua, a concettualizzare in termini spaziali, a fare analisi di tipo musicale, a fare calcoli servendosi di strumenti logici e matematici, a risolvere i problemi usando tutto il proprio corpo o parti di esso, a comprendere gli altri e noi stessi”.

L’evoluzione cognitiva di cui parla Gardner riflette, dunque, in una pluralità di intelligenze, la molteplicità di universi simbolici racchiusi nelle forme culturali che l’uomo ha storicamente elaborato per rappresentarsi e dare senso al mondo che lo circonda.

  1. Forme di comunicazione

Dai diversi stili cognitivi di apprendimento derivano diversi stili culturali di produzione o comunicazione simbolica.  La letteratura psicopedagogica e neurocognitiva degli ultimi anni conferma che i processi di apprendimento si basano sull’organizzazione nell’individuo di una rete di rappresentazioni mentali riccamente interconnesse mediante associazioni di significato. Per il connessionismo il paradigma della cognizione non è il ragionamento, ma la percezione; in tal senso parliamo di ipertesto cognitivo.
E’ evidente che, quanti più canali sensoriali e sistemi di simbolizzazione si riescono ad attivare, tanto più lo sviluppo delle intelligenze risulterà globale.

Lo studio di come funziona l’apprendimento e soprattutto come facilitare lo sviluppo del pensiero creativo pone oggi nuovi interrogativi, anche perché ormai sappiamo perfettamente quanto  l’apprendimento avvenga  attraverso le emozioni e anche  come dalle  connessioni tecnologiche si amplifichino le connessioni logiche, allora oggi il problema didattico è la progettazione di nuove interfacce comunicative.

Il compito dell’insegnante oggi non è più solo e soltanto quello di uno specialista delle scienze umane, ma quello di un esperto in tecnologie delle “intelligenze multiple” in grado di trasformare il sapere in conoscenze utilizzabili, in grado di facilitare lo scaffolding, di progettare percorsi aperti, opportunità da “scalare”.

Sappiamo perfettamente quanto percorsi (oggi denominati “progetti”), apparentemente distanti dal tradizionale sapere (l’attività motoria è uno di questi percorsi), siano in grado di potenziare contemporaneamente una molteplicità di sistemi sensoriali e simbolici, quindi di formare le “intelligenze multiple” dell’individuo: dall’intelligenza spaziale e quella linguistica (che si avvalgono del sistema sensoriale visivo), all’intelligenza musicale (che punta prevalentemente sul sistema sensoriale uditivo), all’intelligenza corporeo-cinestesica (che si fonda sul sistema sensoriale cinestesico), all’intelligenza logico-matematica (che permette le connessioni logiche), all’intelligenza interpersonale (il confronto disciplinare con gli altri), e intrapersonale (la riflessione sulla storia dei percorsi seguiti), oppure l’intelligenza naturalistica (che consente di sistematizzare il sistema ambiente attraverso l’esplorazione ambientale), come quella esistenziale (che permette di cogliere i nessi tra i grandi temi della vita).

In questa prospettiva si realizza, dunque, anche il vecchio sogno dell’attivismo pedagogico dove il fare è sinonimo del pensare.

  1. In cosa consiste la sottile relazione tra la mente e il corpo?

 

Rif. Pensare col corpo. Di Jader Tolja e Francesca Speciali. Insegnano ad ascoltare il corpo, a comprenderne i segnali, perché ogni scelta che noi facciamo, consapevolmente o no, hanno un’influenza assoluta sul nostro corpo e sulla nostra salute. E’ il nostro  stile di vita che decide del nostro presente e del nostro futuro.  Capire come siamo fatti, come sentiamo, come reagiamo, comprendere i segnali del nostro corpo, ci aiuta anzitutto a decidere se prenderci cura di noi stessi o lasciarci andare agli eventi, ci spiega come affrontare anche le difficoltà della vita in modo costruttivo o, semplicemente, distruttivo. E’ il modo migliore per praticare l’educazione alla salute, in questi ultimi anni dimenticata negli scaffali delle circolari scolastiche… L’educazione comincia da subito, dal primo momento in cui veniamo al mondo, dallo stile di vita dei nostri genitori, dalle loro abitudini, e la scuola non può tirarsi indietro da questo compito. Insegnando al bambino come sentire e come gestire  il suo corpo e le sue emozioni lo si aiuta a prevenire ed a vincere le sfide dei momenti critici della sua esistenza, a partire dal primo travaglio importante (quale l’adolescenza), a non aver paura della vita, a non abbandonarsi a comportamenti irresponsabili quali l’uso di sostanze eccitanti, i disordini alimentari, l’abuso di farmaci…

Su questo tema molti contributi ci arrivano  anche  dai maestri del pensiero buddista, in un incontro- scoperta  tra cultura orientale e cultura occidentale.

È possibile oggi, combinando la conoscenza orientale con quella occidentale, ottenere una nuova comprensione della natura della mente, delle potenzialità di crescita dell’essere umano e delle possibilità di salute mentale e fisica?

Rif: in Alchimia emotiva Tara Bennet Goleman ha messo a punto una prassi di cura delle problematiche che rendono l’uomo moderno infelice, facendo tesoro dell’incontro tra la psicoanalisi tradizionale europea e la disciplina buddista. Ha preso spunto dalla cultura tibetana del Dalai Lama e da altri studiosi di filosofia indotibetana (Thurman, Goleman) mettendo in campo cognizioni di medicina, di psichiatria, di psicologia e psicobiologia, di neurobiologia e altre cognizioni relative alle scienze dell’educazione.

Il suo libro offre importanti nuove rivelazioni sulle funzioni della percezione, dell’attività cognitiva e sulla relazione mente/corpo. E’ un libro innovativo e davvero profondo, e attraverso esercizi semplici (anche di controllo del respiro e del corpo) insegna alla persona ad osservare dall’esterno ciò che avviene dentro di sé. In sintesi delinea la strada attraverso la quale la mente può curare il cuore, conoscendo perfettamente il corpo. Un percorso che aiuta il singolo, la persona, a liberarsi dai suoi schemi mentali e a cercare la felicità, ma anche un modo di essere al mondo, concretamente,  come “costruttore di pace”.

La psicologia buddhista offre a quella moderna l’opportunità di un dialogo genuino con un sistema di pensiero che si è evoluto al di fuori dei vari sistemi concettuali elaborati nella psicologia contemporanea.

Si tratta di un sistema di pensiero pienamente realizzato che dà la possibilità di sviluppare una visione complementare su varie questioni fondamentali: la natura della mente, i limiti delle potenzialità di crescita dell’essere umano, le possibilità di salute mentale, i mezzi e metodi per operare il cambiamento e la trasformazione della psiche.

  1. Obiettivi dell’intervento dell’educazione motoria a scuola.
  • favorire la consapevolezza delle complesse relazioni tra corpo e mente già dall’infanzia e dalla pre-adolescenza, di come tali vicende di integrazione possano essere considerate alla luce di dinamiche psico-biologiche, familiari, trans-generazionali e dell’uso di meccanismi di difesa specifici della fase adolescenziale.
  • fornire elementi utili a sviluppare un’attenzione preventiva a forme di disagio adolescenziale che spesso si rendono evidenti solo in un contesto di particolare attenzione al corpo.
  • indicare possibili strategie di integrazione multidisciplinare nel lavoro didattico  con gli alunni.
  1. Come l’attività fisica (sport, danza, musicoterapia, ecc.) può influenzare le condizioni psicologiche dei ragazzi e li predispone all’apprendimento?
  • Fornendo dei rinforzi ambientali. Spesso quando il bambino è un bambino problematico il primo sintomo è la tendenza all’isolamento (sia come forma di chiusura in se stesso, sia come conflitto costante nelle relazioni con i pari). Fare dell’attività fisica all’aria aperta o in palestra permette di entrare in contatto con la natura o con altre persone e di poter sperimentare le sensazioni positive che provengono da questi contatti.
  • Offrendo delle distrazioni positive. Spesso noi ci occupiamo dei bambini più disturbanti, come degli iperattivi, quelli che “rendono la vita impossibile all’insegnante”, e talvolta resta poco spazio per occuparsi di quelli apparentemente “più tranquilli”, quelli che maturano in silenzio una vera  e propria depressione. Tutti danno per ovvio e per scontato che l’attività fisica faccia bene agli iperattivi, perché “scarica dalle tensioni”, ma non si sottolinea abbastanza quanto possa far bene ai soggetti normali, come anche ai bambini   tristi o ansiosi. Quando c’è semplicemente una sintomatologia ansiosa è facile che un bambino non riesca a concentrarsi su niente di diverso da sé, dai suoi sintomi e dalle sue paure. Questa concentrazione gli impedisce di affrontare in maniera efficace le sue difficoltà. L’attività fisica lo aiuta a focalizzarsi su pensieri e progetti più piacevoli e positivi.
  • Migliorando la sensazione di efficacia e di fiducia in se stessi. Spesso quando un bambino mostra i segni di una depressione latente si sente incapace di prendersi cura di se stesso e di assumersi delle piccole (relative all’età) responsabilità. Se riusciamo a coinvolgerlo nel porsi un obiettivo condiviso con il gruppo fissiamo  un obiettivo, una meta, per quanto minima e poi quando si rende conto di essere riuscito a raggiungerlo, si  sentirà senza dubbio più “capace”, più fiducioso nelle sue possibilità di raggiungere altre mete e quindi di gestire meglio le sue emozioni.
  • Aumentando l’ autostima. Quando noi ci sentiamo ansiosi o depressi sappiamo che  la nostra autostima può venire meno. Lo stesso avviene nei piccoli. Anche nella bambina che chiede con insistenza al papà di portarla ai giardinetti a fare dei giochi, mentre il papà, preso dai mille problemi del lavoro e dalle sue incombenze, può non cogliere il suo bisogno di attività fisica “sociale”.  Fare dell’esercizio fisico, anche moderato, e soprattutto farlo in gruppo, può farci sentire più attraenti fisicamente e più “meritevoli”. Se facciamo qualcosa per noi, vuol dire che siamo abbastanza importanti da concedercelo. Se lo facciamo con un gruppo di amici crescono anche le occasioni di  confronto positivo con gli altri.
  • Creando le condizioni per effettuare un confronto emotivo con coetanei in condizioni positive. I cambiamenti che avvengono nell’ organismo umano mentre si  svolgono attività fisiche: cambiamenti nel respiro, nella sudorazione, aumento delle pulsazioni, sono simili a quelli che si possono avvertire nel caso dell’ ansia. Ma durante l’attività fisica questi cambiamenti non sono associati ad una situazione di sofferenza emotiva. Così, aumentando le situazioni di tipo positivo, ludico, competitivo, gestite in gruppo,  può verificarsi una sorta di de-condizionamento: alcuni segnali fisici che prima suscitavano paura e venivano associati ad una situazione vissuta con ansia, come di  pericolo, potranno diventare tipici di  situazioni piacevoli o neutre, non spaventando più.
  • Sperimentando nuovi modi per combattere gli stati d’animo negativi.                La vita non è facile per nessuno, nemmeno per i più piccoli. Spesso il bambino  vive in modo  complicato lo scorrere degli eventi intorno a sé, non ne coglie la complessità; adulti spesso distratti dalla fatica del vivere quotidiano non colgono i segnali di angoscia che a volte travagliano il bambino, non lo aiutano a darsi delle risposte in senso evolutivo e lui tenta di darsi delle risposte diverse, che lo portano a chiudersi in se stesso o ad assumere il ruolo del “bullo”, come  del “capobanda”. Automaticamente cerca di affrontare i propri stati di ansia e depressione ritirandosi in se stesso, o addirittura mettendo in atto comportamenti dannosi per la sua  salute o comunque deleteri nell’equilibrio dei rapporti interpersonali. Fare qualcosa di “attivo” e di “costruttivo” per stare meglio rinforza la fiducia nella sua capacità di affrontare le difficoltà in maniera efficace. Ovviamente, sapere che ci fa bene non significa automaticamente riuscire ad iniziare e a mantenere nel tempo un programma di esercizio fisico.


La cosa importante è che sempre l’attività venga prospettata, sia da parte dei genitori che degli insegnanti come un qualcosa di divertente, che “è bello fare”, onde evitare sintomi di psicopatologie dell’atleta, a dimostrazione che lo sport, in certi suoi eccessi, non fa sempre bene, quali, ad esempio, la sindrome da paura dell’insuccesso. Si tratta di una sorta di ansia preagonistica, con una complessa sintomatologia psichica e somatica.

  1. Le modalità di apprendimento nell’educazione motoria

Occorre considerare che non sempre l’apprendimento motorio per imitazione è proficuo ed efficace per il bambino. L’alunno, infatti, può eseguire i gesti motori solo se precedentemente è stato posto in condizioni di imparare esperienze motorie più semplici ed elementari. L’apprendimento di ogni gesto può infatti essere difficile se prima il bambino non ha appreso gesti più semplici che fungono da “mattoni” per costruire quello più complesso. Quindi il processo tradizionale di insegnamento dei gesti motori: “dimostrare” – “fare eseguire” – “correggere”, proprio nella scuola elementare, potrebbe non essere il più corretto, anche perché potrebbe dare origine a situazioni cariche di ansia o di frustrazione (“Io non sono capace”). L’obiettivo, quindi, è quello di aiutare l’alunno a riuscire in una buona esecuzione motoria, anche molto semplice, affinché il bambino acquisisca padronanza dei gesti. A partire dai cinque anni, quindi, l’apprendimento motorio deve avvenire sempre per gradi e favorendo l’espressione spontanea ed individuale, in forma gioiosa e ludica. I bambini imparano dai propri errori. Una caratteristica importante dell’insegnante, quindi, deve essere quella di non sottolineare l’errore o correggerlo, ma di stimolare le capacità autocorrettive dell’allievo, inserendovi elementi motivanti l’attenzione e la ripetizione, anche per evitare che il bambino, sopraffatto dall’insuccesso o dalla frustrazione e dal rimprovero, si ritragga dal ripetere l’esperienza.

  1. Educazione alla salute e psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI)

La nostra scuola, come molte altre scuole italiane, si è orientata da anni intorno al concetto di “educazione alla salute”, che presuppone di facilitare nei bambini lo sviluppo di un’intelligenza emotiva integrata in tutte le altre forme di intelligenze. Perché tale sviluppo sia armonico non possiamo perdere di vista le ultime scoperte della psiconeuroendocrinoimmunologia.

La psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) è la scienza che studia la grande connessione esistente tra la mente, il cervello, il sistema endocrino e il sistema immunitario. Costituisce le basi dell’unità olistica psicofisica.

Nel corso di ricerche avanzate si è scoperto come il cervello sia in grado di influenzare il sistema immunitario  e come quest’ultimo, a sua volta , fa sentire i suoi effetti sul cervello Negli ultimi quindici anni sono state scoperte le endorfine e le “parole” con cui avviene questo dialogo tra mente e corpo all’interno del nostro organismo. Si tratta di piccole molecole chiamate neuropeptidi, molecole che trasmettono le informazioni nel sistema nervoso. I neuropeptidi sono i mediatori sia delle informazioni, sia delle emozioni e sono attivi praticamente in tutte le cellule del corpo, nel sistema nervoso, ma soprattutto nel sangue, nel sistema immunitario e nell’intestino.

Fino ad una ventina di anni fa, termini come “mente”, “emozione” o “coscienza” non erano nemmeno menzionati nei testi di medicina, in quanto il modello umano ufficiale considerava il corpo come unica realtà e la mente un concetto estraneo alla scienza, non indispensabile. In neurofisiologia si riteneva (e molti purtroppo ritengono ancora) che il cervello “producesse” il pensiero e che il suo funzionamento fosse quello di un computer, basato su una semplice logica di acceso-spento.

Con le scoperte di Candace Pert sui neuropeptidi, questo modello è stato scardinato completamente. Innanzitutto i neuropeptidi devono essere considerati delle molecole “psichiche”, in quanto non trasmettono solo informazioni ormonali e metaboliche, ma “emozioni” e segnali psicofisici: ogni stato emotivo (amore, paura, piacere, dolore, ansia, ira… ), con le sue complesse sfumature chiamate sentimenti, è veicolato nel corpo da specifici neuropeptidi.

L’intero corpo “pensa”, ogni cellula o parte del corpo “sente” e prova “emozioni”, elabora le proprie informazione psicofisiche e le trasmette ad ogni altra parte attraverso una fittissima rete di comunicazioni di estrema varietà comunicativa.

Tutto il corpo è vivo, intelligente e cosciente, ogni cellula prova piacere e dolore ed elabora strategie metaboliche per il benessere collettivo. Su queste basi teoriche e sperimentali, la Pert parla dell’essere umano come di una complessa “rete di informazioni” e dichiara che l’antica divisione tra mente e corpo non ha più ragioni di sussistere.

La psiconeuroimmunologia – lo studio di come la psiche, il sistema nervoso centrale e il sistema immunitario si influenzino vicendevolmente – sta diventando una delle branche più interessanti e in rapido sviluppo dell’intera medicina moderna. Questa nuova scienza attira l’interesse di psichiatri, endocrinologi e biologi molecolari. Non può non interessare il mondo degli educatori. Per questo noi diciamo che la scuola per essere efficace deve essere anche divertente, deve creare occasioni di cimento non frustrante per il bambino, ma occasioni che lo rendano, prima di tutto, sereno. Le buone notizie portano il buonumore e con questo, la salute, il benessere.